Mangiare ultraprocessati uccide, e lo sappiamo da tempo, ma un nuovo studio ha finalmente quantificato con dati concreti questa affermazione. Pubblicato sull’American Journal of Preventive Medicine da un team guidato da Eduardo A.F. Nilson e Felipe Mendes Delpino, lo studio ha calcolato per la prima volta quante morti premature sono attribuibili al consumo di alimenti ultraprocessati (UPF) in otto Paesi. I risultati non solo sono allarmanti, ma rafforzano la richiesta globale di politiche alimentari più rigorose nei confronti dell’industria che li produce.
Secondo la classificazione NOVA, gli UPF sono prodotti industriali ottenuti da ingredienti frazionati, sostanze derivate da alimenti e additivi cosmetici che imitano sapori, colori e consistenze reali.
Sono alimenti progettati per essere iperappetibili, economici e duraturi, ma che sostituiscono ingredienti naturali con chimica edibile, spingendo il consumo e riducendo la qualità nutrizionale. Tra questi: bibite zuccherate, snack, cereali dolci, salumi, zuppe istantanee, merendine e piatti pronti.
Il team ha eseguito un metanalisi di sette studi di coorte e ha individuato una relazione lineare tra percentuale di calorie da UPF e mortalità. Per ogni aumento del 10% nella quota calorica quotidiana da UPF, il rischio di morte prematura cresce del 3%. In popolazioni con esposizione elevata, questo si traduce in numeri significativi di decessi evitabili.
Analizzando dati alimentari rappresentativi in otto Paesi, i ricercatori hanno classificato i livelli di consumo in basso (Colombia, Brasile), intermedio (Cile, Messico) e alto (Australia, Canada, Regno Unito, USA). Fino al 14% delle morti premature tra i 30 e i 69 anni in paesi come USA e Regno Unito può essere attribuito agli ultraprocessati. In Colombia la cifra scende al 4%, ma resta rilevante.
Lo studio suggerisce che ridurre il consumo di UPF sia una priorità sanitaria globale. Non basta affidarsi alla volontà individuale: servono etichette chiare, restrizioni alla pubblicità per bambini, tassazione mirata e riformulazioni obbligatorie.
Paesi come Cile e Messico hanno già introdotto etichette di allerta e regole scolastiche; il Brasile promuove una guida che privilegia pasti casalinghi e poco lavorati. Ma nel mondo i UPF rappresentano oltre il 50% delle calorie quotidiane, soppiantando frutta, verdura, legumi e cereali integrali.
Lo studio non solo conferma i legami tra UPF e obesità, diabete tipo 2, cancro o problemi mentali: traduce quei rischi in numeri di morti reali, paragonabili a quelli del fumo o dell’inquinamento. E chiarisce che non è solo questione di “mangiare male”: gli UPF alterano la flora intestinale, provocano infiammazioni croniche e possono generare dipendenza. Per questo non basta riformularli o affidarsi all’autocontrollo.
Questo studio è (un’altra) chiamata urgente all’azione. Servono linee guida alimentari che parlino chiaro, anche sui processi industriali, e politiche coraggiose che contrastino il potere dell’industria alimentare. Serve educazione, informazione, comunicazione. Dobbiamo poter fare scelte libere con informazioni vere. Il messaggio è chiaro: consumare molti ultraprocessati accorcia la vita. E colpisce di più le persone più povere, più esposte a cibi economici e dannosi. Combattere gli ultraprocessati è anche una questione di giustizia sociale.
Premature Mortality Attributable to Ultraprocessed Food Consumption in 8 Countries. Nilson, Eduardo A.F. et al. American Journal of Preventive Medicine, Volume 0, Issue 0